Sono le ore 1830 circa. È domenica, sono in macchina con il mio compagno.
Il mal di testa comincia a diventare sempre più forte. Prendo un antidolorifico, ma non fa effetto.
Ad un certo punto la vista si annebbia e inizio a vedere nero.
La fitta alla testa diventa sempre più forte, gambe e braccia cedono.
Il respiro si fa affannoso e la salivazione cessa.
Solo un filo di voce per chiedere a Gianpaolo di chiamare un’ambulanza.
La paura cresce, ma il mio dialogo interno è ancora lucido.
Applico tutto quello che so per rimanere tranquilla e poter raccontare al medico in arrivo quanto sta accadendo con le mie parole.
Una vocina mi dice: “tanto lo sai cosa dirà appena ti vede in queste condizioni”.
Non voglio dare peso a ciò che la mia mente dice, il male alla testa è troppo forte.
Ecco che riesco a percepire la sirena dell’ambulanza che arriva in codice rosso.
Il cuore inizia a battere più forte. La mia mente va a quel ricordo del 28 giugno del 2005. Quell’ambulanza, quel ricovero.
Il medico apre la portiera della macchina e inizia a farmi domande:
“Come ti chiami?”
“Mi chiamo Caterina”, rispondo.
“Cosa succede?”, continua.
“Ho una forte fitta alla testa, vedo pochissimo non sento più gambe e braccia e non ho più salivazione”
La risposta del medico: “Ogni quanto ti capitano questi attacchi di panico?”
NOOOOO! Non ci posso credere!
Sta succedendo ciò che temevo accadesse.
Non è un attacco di panico, ho dei sintomi fisici ben precisi che ti sto spiegando lucidamente, non puoi farmi questa domanda.
Stai tranquilla, mi dico, continua a spiegare i sintomi con calma vedrai che capisce.
“Non è un attacco di panico dottore, li conosco bene e se fosse un attacco di panico non parlerei così lucidamente”.
“Certo, capsico risponde il medico, ora andiamo in ospedale così facciamo un controllo e somministriamo un calmante, intanto continua a respirare”.
A quel punto non so se piangere o ridere. La debolezza di quel momento mi porta dire semplicemente “va bene”, proprio come quel giorno in ospedale.
Arrivo in ospedale mi portano subito in zona triage.
L’infermiere arriva dopo qualche minuto, mi prende i parametri e mi chiede: “cosa succede Caterina?”.
Rispiego quanto accaduto. La sua risposta: “ti capitano spesso questi attacchi di panico?”.
A quel punto sale la rabbia. Non so se prenderlo a schiaffi per la sua incompetenza o se chiedere di un dottore preparato.
Alla fine opto di ripetere la risposta che ho dato anche al dottore dell’ambulanza: “non è un attacco di panico. Se lo fosse di sicuro non sarei in grado di spiegare i sintomi in questo momento”.
L’infermiere mi guarda con quel sorrisetto da faccia da schiaffi e mi risponde: “certo, ora chiamo il medico, intanto le somministro un calmante”.
A quel punto la mia risposta è secca: “Se solo osa a somministrarmi quella merda la denuncio. Sa come funziona, prima di somministrare un calmante bisognerebbe consultare uno specialista, a me lei sembra solo un infermiere del triage. Io ho un forte mal di testa e lei qui vuole somministrarmi un calmante?”.
Le mie parole bloccano l’infermiere in uno sguardo tra la sfida e l’incredulità alle mie parole, poi arriva la risposta: “la porto dal medico”.
Sala visite.
Chiudo gli occhi in attesa del mio turno, e prima che il medico si avvicini, l’infermiere, pensando dormissi dice : “Dottore c’è un attacco di panico che rifiuta trattamento”.
Apro gli occhi immediatamente, incrocio lo sguardo dell’infermiere.
Decido di non dare seguito alle sue parole e rivolgo un sorriso al dottore spiegando i sintomi.
Il dottore con molta semplicità guardandomi le pupille capisce di cosa si tratta. Si gira verso l’infermiere e dice: “ma quale attacco di panico.. preparala per una tac”.
Poi si gira verso di me e mi dice: “Ci scusi Caterina, ora mettiamo a posto tutto per farla stare subito bene”.
Inutile dire che il mio sguardo va di nuovo sull’infermiere. Questa volta però lo vedo con gli occhi diversi.
Non dice nulla, non dico niente.
Dopo qualche istante mi viene a prendere per portarmi a fare la Tac, questa volta cerca di evitare il mio sguardo.
Non voglio lasciare questa cosa in sospeso.
Appena terminata la tac, torno in sala osservazione in attesa dell’esito chiedo a Gianpaolo di andare in auto a prendere una copia del mio libro.
Dopo circa due ore arriva la risposta ed è sempre il solito infermiere che viene a prendermi per riportarmi dal medico. Questa volta cerco lo sguardo e quando finalmente mi guarda prendo il mio libro e con uno sorriso glielo porgo dicendo: “Sai, a volte basta semplicemente chiedere scusa. Questo libro ti servirà per capire meglio i pazienti con attacchi di panico e usare le parole giuste quando dovrai gestirli.”
Gli metto letteralmente il libro tra le mani, prendo la mia lettera di dimissioni e mi avvio verso l’uscita.
Sono quasi fuori dall’ospedale quando sento chiamarmi.
Mi giro e con molta sorpresa vedo che è l’infermiere a chiamarmi. Penso di essermi dimenticata qualcosa invece mi raggiunge mi porge il mio libro una penna e mi dice: “Una figura così merita una autografo”.
Inizio a ridere e con molto piacere faccio la dedica a quell’infermiere che dopo tutto si è preso cura di me.
Oggi mentre scrivevo questo post ho consapevolizzato quanto sono cambiata.
Ho realizzato soprattutto come ho imparato ad esprimere in maniera corretta ciò che ho dentro.
Ho anche imparato quanto ignoranza c’è ancora rispetto a queste emozioni che non sono ancora conosciute. Soprattutto quanto si può far male ad una persona con le parole senza saperlo. Un po’ come quando appena uscita dall’ospedale chi mi incontrava mi diceva: “ciao Caterina, ho saputo che hai avuto l’esaurimento nervoso”. Le parole fanno male, saperle usare è veramente importante. Ascoltare è essenziale per aiutare un paziente. L’ansia bisogna conoscerla prima di diagnosticarla.
Per tutto il resto… Ansia Che ridere!